martedì 15 maggio 2012

Topografie politiche dello spazio costituente: Midan Al Tahrir, la piazza araba


di Massimiiano Caserta

Col termine piazza araba si era soliti definire un immaginario politico mediatico  di  masse aizzate  all’interno del dar-Islam, il  territorio islamico contrapposto al mondo occidentale; la primavera araba ha rappresentato l’insorgere di una nuova spazialità[1]: una piazza araba nel senso geofilosofico del termine. 
Al Cairo come a Tunisi, i poteri costituitisi dopo l’indipendenza hanno insediato i propri stati di sovranità su un tessuto urbano in cui la pianificazione coloniale di stampo europeo si è innervata sul modello fondativo arabo-islamico. Nella città islamica non ci sono spazi aperti progettati che potrebbero assimilarsi alla piazza della città occidentale, il luogo d’incontro pubblico è dato dalla moschea che domina sulla città oltre che per la posizione, anche per la dimensione della sua architettura, in netto distacco rispetto alla trama abitativa.
La diffusione dei nuovi media sociali della Rete ha creato le premesse per uno scisma tra cultura araba e islamica ricomponendo la potenza del sociale con la razionalità del politico: la piazza ha superato il sahn della  Moschea congregazionale, vero centro del dar-Islam. Come l’agorà greca o il foro romano, il sahn, il grande cortile, era luogo d’assemblea pubblica, serviva come tribunale e come aula per udienze, ma ciò che è più importante, << era il luogo dove il califfo o il suo governatore erano acclamati e accettati dalla comunità >>.[2]
 Le premesse tipologiche perché si possa parlare di spazio costituente affondano indubbiamente le proprie radici in questo spazio nodale situato tra gli Stati (con la loro sovranità) e i cittadini (con la loro nuda vita), lascito della civiltà greco-romana.  
Il vuoto della piazza raduna il pieno dei significati, la sua conquista è il preludio alla rappresentazione dei poteri costituenti.


Storia politica di Piazza Tahrir

Midan al Tahrir, arabo per Piazza della Liberazione, porta entro i sui confini i segni urbanistici della transizione attraverso tre significativi periodi della storia dell’Egitto moderno: il periodo coloniale, post-coloniale e post-post coloniale.[3]
La storia di questo spazio ha inizio nel 1867 quando sotto l’impulso modernizzatore del Khedive Ismail viene pianificato un intero nuovo distretto: il quartiere europeo del Cairo, odierno downtown Cairo, a ovest  del nucleo storico della città.[4]
Al centro del distretto, con funzione di connessione secondo il modello haussmaniano dei boulevards, è progettata una grande piazza che prenderà il nome di Piazza Ismail.
Gli ingenti debiti contratti nell’opera di modernizzazione del paese obbligheranno Ismail nel 1882 a lasciare il governo del paese nelle mani delle potenze straniere, prima fra tutti l’Inghilterra; la piazza sarà testimone di questo passaggio di poteri allocando la caserma delle forze di occupazione britanniche nel suo lato ovest sulla sponda del Nilo.
La piazza inizia a prendere una forma definita nel 1902 con la realizzazione su progetto neoclassico dell’architetto francese Marcel Dourgnon del Museo Egizio sul lato nord, cui faranno seguito degli edifici per abitazioni sul lato nord-est.
Nella prima metà del 900’ la piazza viene ridisegnata per canalizzare il flusso veicolare attraverso una rotatoria a verde nella parte sud dell’area. Nel 1951 la parte sud dell’area trova il suo fondale urbano con la costruzione del Mogamma, grande edificio amministrativo donato dall’Unione Sovietica e realizzato su progetto dell’architetto Kamal Ismail che subisce fortemente l’influenza degli edifici del modello tipologico sovietico. Al centro della rotatoria il re Farouk farà collocare un piedistallo che avrebbe dovuto sorreggere la statua di Khedive Ismail, cosa che non accadrà mai per il sopraggiunto colpo di stato dell’esercito nel 1952. Il nuovo regime sotto la guida di Nasser inaugura l’era post coloniale dell’Egitto cambiando la denominazione di piazza Ismail in Piazza Tahrir, ovvero piazza della Liberazione e completando il lato ovest dell’area con tre edifici: il Nile Hilton sul sito della British Barraks, il palazzo della Lega Araba e la sede del partito dell’Unione Socialista Araba che poi diventerà National Democratic Party, partito unico dell’era di Mubarak che sarà dato alle fiamme durante le dimostrazioni del febbraio 2011.
Dal suo insediamento nel 1981, Mubarak ha esteso una serie di politiche avviate da Anwar Sadat istituendo leggi che hanno limitato fortemente l'accesso degli egiziani allo spazio pubblico. La pianificazione urbana è stata filtrata attraverso gli apparati di sicurezza dello Stato:  Piazza Tahrir, luogo dove i cittadini potevano riunirsi e organizzare manifestazioni politiche, è stata sistematicamente suddivisa, recintata e destinata al traffico veicolare. A queste misure va aggiunto un decennio di politiche urbanistiche  che ha portato l’èlite a trasferirsi nelle città satelite del deserto all’interno di gated communities rifiutando la città e abbandonandola al degrado urbano e sociale.[5]
Quando il 25 gennaio 2011 scoppiano le proteste contro il regime di Mubarak, la popolazione decide di occupare piazza Tahrir riaffermando la vitalità urbana della megalopoli cairota: la piazza diventa un enorme magnete grazie alla sua posizione centrale e alla possibilità di accedervi da 23 strade differenti. 
Le forze di sicurezza del Ministero dell’Interno hanno riconosciuto immediatamente il simbolismo crescente del luogo e hanno preso misure vigorose per “bonificare” l'area con idranti, gas lacrimogeni, proiettili di gomma. L’azione repressiva ha fatto di piazza Tahrir un simbolo ancora più potente, le comunicazioni che viaggiavano attraverso i nuovi media sociali della Rete hanno chiamano a raccolta un numero crescente di persone sino a raggiungere le 30.000 unità. La battaglia per ottenere il controllo dello spazio ha spostato in avanti gli obiettivi della cittadinanza: respingere le forze di sicurezza dello Stato, rovesciare il regime ma sopratutto rivendicare la piazza come luogo nodale degli eventi per trasformarla nel laboratorio  spaziale della rivoluzione.
Dopo il ritiro delle forze di sicurezza, Mubarak ha inviato  squadre di teppisti pagati per attaccare i cittadini con bastoni, coltelli e bombe molotov, l’estremo atto di resistenza che ne è seguito sancisce  la nascita di un nuovo spazio subito ribattezzato "Libera Repubblica di Piazza Tahrir".
La piazza ora apparteneva alle persone che avevano sconfitto i tentativi del regime per disperdere e disinnescare la giovane rivoluzione. La folla era cresciuta fino a raggiungere le 400.000 unità, uno straordinario spaccato della società egiziana, un mix di classe, genere, età, orientamento sessuale, etnia e religione.[6] C’è un ‘immagine che va oltre la narrazione, oltre il mero reportage degli eventi, è una fotografia presa dall’alto, una mappatura dell’organizzazione logistica della vita quotidiana di piazza Tahrir nelle giornate che hanno preceduto la caduta del regime di Mubarak. L’istantanea restituisce efficacemente le linee di un dispositivo spaziale di riconfigurazione del luogo piazza nel dominio di una molteplicità multidirezionale aperta; nella visualizzazione  della fase per-formativa di una comunità dinamica, non precostituita, emerge un quadro di dis-unione che rivela la sua potenza creativa proprio nell’impossibilità di con-formare lo spazio ad uno spazio liscio.
Ciò che è avvenuto in piazza Tahrir è stata più che una manifestazione di protesta: un nuovo spazio pubblico  si è materializzato, se non il suo superamento, uno spazio costituente dove il discorso pubblico deve essere continuamente ri-formato e disseminato, fuori da una cornice curatoriale/politica basata esclusivamente sulla rappresentazione del consenso. Il ruolo  dei media sociali della Rete si è concretizzato nell’integrazione tra spazio virtuale e spazio fisico, ricomposizione del sociale e politico dove come afferma Jacques Ranciere il politico non è il fuori, il reale; l‘esterno è sempre l’altro lato di un interno, ciò che fa la differenza è la topografia nella cui cornice si negozia la relazione.[7]
Quella spaziale come tutte le rivoluzioni, vere o presunte che siano,  contiene però, dentro il tempo dell’evento, l’urgenza del suo termine. Terminare la rivoluzione è la parola d’ordine. E non basta chiudere lo spazio in cui si è determinata, come ha fatto  l’esercito con enormi blocchi di cemento nei giorni seguenti alla caduta di Mubarak. Più efficace è formalizzarne un nuovo assetto statico: nelle commemorazioni svoltesi nella piazza Tahrir ad un anno dagli eventi decisivi, parti non eterogenee del movimento segnano spazialmente il termine della rivoluzione. Come? Innalzando al centro della piazza non uno ma due obelischi con i nomi dei martiri della rivoluzione. 
Architetti e artisti egiziani hanno subito raccolto l’indicazione lanciando un concorso per la piazza Tahrir del nuovo corso. Quale il tema? E’ gia tempo per un monumento. La rivoluzione è finita.


Città Generica vs Sfera Pubblica: una questione d’identità

Ci sono altre piazze Tahrir disseminate nel mondo globalizzato. L’anno 2011 ci ha mostrato il loro potente manifestarsi. Se la piazza araba si è manifestata come spazio costituente, nell’Occidente dei sistemi democatici la piazza ha invece assolto  ad una funzione essenzialmente destituente. E’ il caso di piazza Syntagma ad Atene e piazza S. Giovanni a Roma dove rompere per rompere è stata la risposta all’acutizzarsi della crisi economica. 
Diverso è il caso della Puerta del Sol a  Madrid dove l’acampada degli indignados  sembra l’evidente ricaduta  di un sistema spaziale politico dove l’oikonomia, per l’appunto, ha il completo controllo a discapito della sfera pubblica. Lo stesso dicasi per New York, dove il parco urbano sostituisce la piazza, quasi inesistente nella città americana; nel cuore di Wall Street a Zuccotti Park si è concentrata la massa critica in opposizione al dominio della finanziarizzazione dei mercati, rendendo emblematico il conflitto in atto tra città generica e sfera pubblica. Nelle parole del suo lucido teorizzatore,  “a paragone della città classica, la Città Generica è sedata”,  “si compie tramite l’ evacuazione della sfera pubblica”, dove “ il foro romano sta all’agorà greca come il mall commerciale sta alla strada principale”.[8]
In una parola, nella Città Generica, la sfera pubblica è residuale.
Come precondizione alla Città Generica, ll suo lucido teorizzatore, che adesso possiamo dirlo senza paura di essere scambiati  per oppositori passatisti ne tantomeno per acritici suggestionati è Rem Koolhaas, pone la liberazione “dalla camicia di forza dell’identità”. Questo passaggio è il centro della questione perché ne definisce la discriminante tra una teoria, per così dire, buona ed una cattiva: “l’identità è una trappola in cui un numero sempre maggiore di topi deve dividersi l’esca originaria e che, osservata da vicino, forse è vuota da secoli. Più forte è l’identità, più è vincolante, più recalcitra di fronte all’espansione, all’interpretazione, al rinnovamento, alla contraddizione. L’identita diventa un faro, fisso, inflessibile: può cambiare la sua posizione o il segnale che emette solo a prezzo di destabilizzare la navigazione.”[9]
E’ proprio l’interpretazione dell’identità, la sua rideclinazione, che ne determina la sua espansività e quindi il suo rinnovamento. L’identità non è una camicia di forza ma un faro, questo si fisso, di civiltà.
Piazza del Campo a Siena, divisa in nove settori a rappresentare il governo dei Nove, scende ripida verso il palazzo pubblico, la forma a conchiglia invita le genti a raccogliersi in dialogo: un ordinamento spaziale  che esprime l’aspirazione  alla concordia civile dentro una società in  mutazione, attraversata da tumulti, quale fu quella della Siena del Trecento.
Prima che il progetto di piazze e dello spazio cosìdetto pubblico diventasse mero disegno dell’arredo urbano, nemmeno troppo fantasioso catalogo di panchine e patterns di pavimetazione, è stato progetto costituente di forme politiche di sovranità; beninteso che anche dalla “neutralizzazione” dello spazio agita per mano degli specialisti del design urbano emerge un quadro indiscutibile d’intenti politici prefigurati. Non crediamo ad una ipotetica neutralità del tecnico. Tecno-biopolitche della progettazione devono avvenire: è tempo ormai per architetti e urbanisti di pensare alla progettazione di piazze performative delle arti politiche, integrate con le tecnologie della comunicazione in rete, spazi costituenti, condensatori sociali per nuove forme di democrazia. 


Roel Wouter- public space as performative space


Vista del piano pubblico del Circo Massimo e del Quartiere Nord. Da Brussels—A Manifesto: Towards the Capital of Europe, p. 125. Per gentile concessione del Berlage Institute.


“Architettura o rivoluzione” o per meglio dire  “Architettura e rivoluzione”.


[1] K. Varnelis, Lo spazio dopo la casbah, Domus, n.946, Aprile 2011
[2] J.D.Hoag, Architettura Islamica, Milano, Electa, 1978, p. 8
[3] K. Adham, Tahrir Square through Two Transitions, <http//:sahcommunities.groupsite.com/post/tahrir-square-from-colonialism-to-post-postcolonialism-khaled-adham> Society of Architectural Historians, 2011
[4] M. Elshahed, Tahrir Square, A Collection of Fragments,< http//: archpaper.com/news/articles.asp?id=5201>, 2011
[5] E. Denis, Cairo as Neoliberal Capital? From walled City to Gated Communities, in Cairo Cosmopolitan, D. Singerman, P. Hanmar, American University in Cairo Press, 2006, pp.47-71
[6] M. Elshahed, Public Space, Social Media, < http//:designobserver.com/feature/tahrir-square-social-media-public-space/25108/>, 2011
[7] cfr. J. Ranciere, Artists and Cultural Producers as Political Subjects – Opposition,
Intervention, Participation, Emancipation in Times of Neo-Liberal Globalisation, in Muhtelif– Contemporary art publication, n. 2, ed. Ahmet .güt, Pelin Tan, Adnan Yildiz, Istanbul, 2007
[8] R. Koolhaas, Junkspace, trad It. Quodlibet, Macerata, 2006
[9] ibidem








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